Come le onde che si allargano su uno stagno dopo il lancio di un sasso, l’incessante ricerca di location adatte a Barry Lyndon spingeva Ken Adam sempre più lontano da Abbots Mead, fino ad arrivare in Irlanda. Le colline e gli edifici storici intorno a Dublino sembravano indispensabili per raccontare una storia che si svolgeva in larga parte nelle campagne dell’isola. Stanley non aveva altra scelta che lasciare l’Inghilterra.
Nell’estate del ’73 pianificò l’enorme trasloco: per ciascun reparto della produzione mise a disposizione un paio di mezzi di trasporto per caricare il materiale e individuò un responsabile che avrebbe risposto dell’intera operazione.
Iniziai a portare in Irlanda i documenti degli avvocati che sancivano l’avvio della produzione, i libri paga preparati dai contabili e i contratti assicurativi che Margaret aveva formulato. Poi fu la volta di qualche furgone carico di mobili e oggetti di scena, noleggiati o fatti realizzare a Londra. Nei viaggi di ritorno, il furgone veniva riempito di materiale che non serviva più e che andava riportato nei magazzini inglesi. Ricevetti anche l’incarico di trasportare decine e decine di casse di candele che sarebbero servite per illuminare le scene di interni in notturna: l’idea di Stanley e John era di fare luce solo con le piccole fiammelle, limitando al massimo l’uso di faretti o di altre luci elettriche.
Viaggiavo via terra, mare, aria. In aereo impiegavo circa un’ora, più il tempo del check-in. Via terra, con l’auto o i furgoni e la traversata in traghetto, ci voleva mezza giornata. Lo stesso tempo era necessario quando prendevo il treno, anche se il viaggio era molto più comodo: il personale di bordo serviva il pranzo e potevo riposare come fossi in una stanza di albergo. Tuttavia, era un lusso che veniva concesso di rado, perché le richieste erano sempre più urgenti. I viaggi peggiori erano quelli per mare. Quando il 19 gennaio 1960 mi ero imbarcato a Calais per emigrare avevo visto il mare per la prima volta in vita mia, e il viaggio tra le onde in tempesta fu terribile. Il traghetto mi sembrava troppo piccolo e troppo carico di persone, e paurosamente fuori controllo. Tanta fatica per venire a morire qui, ché non si capiva nemmeno se era Francia o Inghilterra. Mi era mancata l’aria quando Stanley mi aveva detto che non si sentiva sicuro ad affidare una decina di casse alle mani degli operai della compagnia marittima. Avevo passato le tre ore di viaggio di nuovo aggrappato alla ringhiera, con il rumore dell’acqua contro i finestrini e gli occhi quasi sempre chiusi, a pregare Dio di tornare a toccare la terraferma.
All’aeroporto di Heathrow sfruttavo dei biglietti senza orario che consentivano di imbarcarmi sul primo volo disponibile. Margaret era riuscita a ottenere una serie di condizioni favorevoli dai dirigenti delle compagnie aeree grazie all’enorme numero di voli che la Hawk Films prenotava. Per esempio, a chi è capitato di frequentare l’aeroporto durante i mesi autunnali del 1973 avrà sentito dagli altoparlanti un messaggio che si ripeteva ogni quindici minuti: «Emilio D’Alessandro to contact the office». In mezzo ad annunci di ritardi e di apertura dei cancelli, «Emilio D’Alessandro contatti l’ufficio», e io già sapevo che dovevo chiamare Margaret. L’idea era stata sua: per mettersi in contatto con me faceva annunciare quel messaggio alla speaker dell’aeroporto in modo che, sentendolo appena arrivato al check-in, chiamassi il Lodge con urgenza. Allo stesso modo, prima di imbarcarmi dovevo passare davanti alla bacheca del personale dove gli impiegati dell’aeroporto lasciavano le comunicazioni amministrative che riguardavano chi lavorava nelle compagnie di volo: io invece vi trovavo i messaggi che Margaret aveva dettato per telefono alla segreteria dell’aeroporto, con i magazzini presso cui ritirare del materiale e i nomi di persone a cui rivolgersi. Strappavo il biglietto dalla bacheca, lo mettevo in tasca e continuavo di corsa. Erano privilegi speciali, ottenuti con il metodo che aveva sempre funzionato al Lodge: regali a chi sedeva ai posti di comando.
Identica strategia per il personale della dogana del porto inglese e di quello irlandese. Erano accorgimenti da poco ma facevano un’enorme differenza: una telefonata il giorno prima per assicurarsi che ci fosse posto, cinque sterline allungate al volo per salire in qualche traghetto già pieno… Se non avessimo agito in questo modo, per completare Barry Lyndon sarebbero occorsi dieci anni. La produzione del film era costantemente appesa al sottile filo della puntualità dei trasporti: un ritardo qualunque, anche solo di un giorno, per un disguido alla dogana o un aereo perduto, lasciava centinaia di persone con le mani in mano a un costo impressionante. Cosa erano cinque sterline – che pure erano una bella mancia all’epoca – di fronte alle cinquemila risparmiate rientrando nei tempi?
Gentilissimo Emilio ,
Ho visto la sua storia su Sky Arte , mi sono emozionato come un bambino nel vedere questa bellissima Amicizia.
Grazie per averla raccontata , grazie per essere stato così vicino ad un Grande Regista.
Cordialmente
Massimo
Grazie a te Massimo per il tuo messaggio! Ci fa molto piacere che questa storia ti abbia emozionato.
F.
Mi aveva colpito del filmato ” S is for Stanley ” , in primo luogo il profilo tutto italiano di Emilio, tanto simile a quello di mio padre , poi andando avanti capisco che quell’omino dai modi semplici, essenziali , quasi d’altri tempi aveva a che fare con uno dei miei miti , il più grande di tutti , Stanley Kubrick , e allora lo divoro, lo registro e me lo rivedo più volte , leggo il libro ” Stanley Kubrick e me ” e piango con lui e Vivian , rivivendo quel 1999 ormai superato da mille altre esperienze ; non pensavo che una storia cosi’ potesse emozionarmi a tal punto , e ringrazio Emilio di averlo raccontato e fatto conoscere meglio di come avrebbe fatto qualsiasi altro libro di critica cinematografica , grazie dal profondo del cuore .
Savino
Grazie mille Savino per il tuo messaggio! Lo leggerò a Emilio, sono certo che farà tantissimo piacere anche a lui. Grazie. F.