Dopo il trasloco a Childwickbury, era giunto il momento di trovare un posto alla roba di Stanley. Lo Stable Block, l’edificio di forma quadrata con cortile interno precedentemente adibito a stalle, fu provvidenziale. Nello stanzone di destra Stanley volle sistemare i bauli che contenevano tutto quello che non aveva mai buttato via da quando aveva iniziato a fare film. Erano centinaia: una piramide di bauli di legno, di acciaio, verdi, neri, grandi, più grandi, enormi. Ammassati nel cortile di Childwickbury erano uno spettacolo impressionante. Una buona parte conteneva le cose che Stanley aveva trasportato via nave quando si era trasferito dagli Stati Uniti in Inghilterra: non venivano aperti da allora. Oggetti, libri e altre cianfrusaglie che aveva nel suo appartamento a New York più tutto il materiale di produzione dei film che aveva girato in America. Alcuni avevano ancora legate con lo spago le etichette della Cunard Line, la compagnia di navi transatlantiche su cui aveva fatto il viaggio negli anni sessanta. Lì dentro c’era tutta la vita americana di Stanley.

Prima che decidesse di raccoglierli tutti nella nuova casa, erano conservati in due magazzini a pagamento, a Bullens e a Bushey. Giacevano lì da almeno dieci anni, ammassati senza un ordine preciso, contrassegnati solo da un numero. L’inventario era andato perso, e ogni volta che bisognava cercare qualcosa era un dramma.

Io e Andros prendevamo un baule, io da una parte e lui dall’altra, toglievamo la targhetta della nave, lo aprivamo e guardavamo se quello che conteneva era ciò che Stanley stava cercando. Spesso non lo era. Bisognava prenderne un altro. Stanley ci richiedeva di solito dei libri o delle riviste dandoci indicazioni talvolta generiche come «cercate un baule grande, nero, coi bordi di metallo» talvolta più precise come «baule numero 150.» Nel primo caso, scoprivamo che almeno venti bauli erano grandi, neri, coi bordi di metallo; nel secondo, che il 150 non esisteva affatto.
Insieme ad Andros avevo iniziato a elencare su un registro il contenuto di ogni baule aperto, in modo da ricostruire un po’ alla volta l’inventario perduto. Vecchi numeri di Look. Vecchi numeri di altre riviste americane. Ritagli di giornale. Contratti con la United Artists. Tabulati del personale sul set di un vecchio film. La fotografia di diploma di Stanley. Lettere di avvocati. Lettere di collaboratori. Lettere di ammiratori. Altre lettere. Libri. Libri grandi. Libri piccoli. Cose varie.

Al ritorno portavamo l’elenco da Stanley che guardava il materiale e ci diceva se tenerlo o sbarazzarcene: «Get rid of it! Ma tieni il baule vuoto, lo useremo per qualcos’altro.»

Memore dell’esperienza passata, questa volta pregai Stanley di organizzare i bauli in modo più intelligente, dato che aveva uno spazio intero a disposizione. Mi chiese quale fosse il problema principale nel trovare il baule giusto. «Trovarlo!» risposi io. Proposi di sistemarli in file e contrassegnare ciascuna fila con delle lettere: «I bauli hanno già i numeri, così come a battaglia navale possiamo trovarli al volo» suggerii. «Giusto» rispose Stanley, «il secondo problema?» «Prendere quelli in basso.» Proposi di non impilare mai un baule sopra l’altro: ciascuno doveva poggiare sul ripiano.
«Emilio, facciamo un bell’inventario, che ne dici?»
«Stanley, abbi pazienza, te lo scordi.»
«Magari lo faccio fare a qualcun altro?»
«Come vuoi, ma non voglio nemmeno sapere chi è.»